This Must Be The Place

This Must Be The Place

This Must Be The Place. Paolo Sorrentino come Gabriele Muccino. Un regista italiano alle prese con un film in lingua inglese e con una superstar hollywoodiana per protagonista. Sean Penn è Cheyenne, un ex rocker ora in pensione; un cinquantenne curvo per la sciatica ma con la faccia costantemente impiastricciata di cerone e capelli vistosamente lunghi e laccati. Un uomo che si trascina sempre appresso un trolley, quasi fosse il retaggio di un passato che non lo abbondona mai. Cheyenne apprende che il padre, col quale aveva interrotto ogni rapporto da oltre trent’anni, è in punto di morte e decide così di raggiungerlo a New York. Arriverà a destinazione trovandolo già deceduto e, leggendone i diari, scopre che aveva dedicato i suoi ultimi anni a cercare il gerarca nazista che lo aveva umiliato durante la seconda guerra mondiale. L’ex rocchettaro decide, così, di proseguire in questa ricerca nonostante la forte possibilità che il personaggio in questione (ora novantacinquenne) sia già a sua volta deceduto. Il viaggio attraverso gli Stati Uniti si trasforma in un viaggio interiore. Un percorso che parte da Dublino per arrivare a New York e proseguire fino in New Mexico. La metafora di Sorrentino è abbastanza chiara: il cinquantenne Cheyenne, mai cresciuto, riparte dai suoi trascorsi giovanili per rivedere la situazione presente e compiere il balzo tardivo ma necessario verso una nuova maturità. Un film, tutto sommato, on the road visivamente complesso ed interpretabile in mille maniere. Particolari apparentemente casuali che si innestano nelle vicende dell’anomalo viaggiatore/investigatore come tasselli di un insolito mosaico che trova solo alla fine una completa soluzione. Rimane indiscutibile che sia merito della classe sopraffina di Sean Penn il fatto che il tempo scorra piacevolmente nonostante la lentezza generale esasperata di tutto il film.

La frase ad effetto? Beh, senz’altro questa:

Ci sono parecchi modi per morire; il peggiore è restando vivi.

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